«Le istituzioni non sono forma, ma sostanza. Certe istituzioni impediscono certe politiche di riforme. Per questo per fare le seconde occorre cambiare le prime». Così nel febbraio del 2019 Giorgio Armillei ricordava, in uno degli incontri del gruppo del Landino formato con amiche e amici con cui aveva condiviso negli anni 80 l’esperienza della Fuci (Federazione universitaria cattolico italiana), l’importanza della via riformatrice per modernizzare la politica, la giustizia e l’economia italiana e raggiungere gli standard di governabilità ed efficienza delle altre grandi democrazie europee. Superando quello che chiamava «il complesso del tiranno» tutto nostrano e che ha segnato l’elaborazione e la successiva difesa conservatrice «della seconda parte della Costituzione: parlamentarismo, bicameralismo perfetto, proporzionalismo». Con la conseguenza che «dal 1953 il presidente del Consiglio italiano non è più in condizione di guidare un governo ma si deve limitare a fare da mediatore».
Cambiare le istituzioni per poter fare le riforme che servono
È proprio lo spirito riformatore il file rouge della vita e degli interventi pubblici di Armillei. La figura e l’opera del “cattolico democratico liberale”, come lui stesso si definiva, sono oggetto – proprio nei giorni del primo anniversario della sua scomparsa (5 giugno 2021) – di un libro edito dal Mulino dal titolo “La forza mite del riformismo, Riflessioni di un cattolico liberale sulla crisi di inizio secolo” (pp 335, 26 euro): a cura degli amici dai tempi della Fuci Stefano Ceccanti e Isabella Nespoli, il volume raccoglie in tre sezioni gli scritti più significativi dal 2010 alla morte.
La sfida del Pd: partito di governo a vocazione maggioritaria
È questo spirito riformatore a spingere l’impegno pubblico di Armillei a livello nazionale e nella sua Terni, dove è stato anche assessore alla Cultura, già nei Comitati referendari per la riforma della legge elettorale dei primi anni Novanta. Fino al sostegno convinto nel 2016 a quella riforma Boschi che mirava a superare l’anomalia italiana del bicameralismo perfetto. Da qui, anche, il suo convinto sostegno al progetto, culturale e politico, che aveva dato luogo alla nascita del Partito democratico tra il 2006 e il 2007 come luogo di incontro delle diverse culture riformiste italiane (cattolica, liberale e socialista). «Un partito a vocazione maggioritaria di tipo essenzialmente elettorale, dotato di leadership personalizzata scelta in forme aperte e competitive (le primarie), con tanto di identificazione tra guida del governo e guida del partito». Ed è chiaro che il partito a vocazione maggioritaria chiama la «democrazia governante» e un «sistema elettorale majority assuring», per Armillei «le migliori polizze di assicurazione contro il populismo».
Da destra/sinistra a chiusura populista/apertura liberale
Gli scritti di Armillei riportati nel libro si snodano proprio nel decennio della crescita del populismo in Italia e in Europa, tra gli anni della grande crisi finanziaria e del vincolo europeo di bilancio e la pandemia. Insieme allo scienziato della politica Sergio Fabbrini, Armillei è stato uno dei primi a intuire che il confronto politico nelle moderne democrazie non si gioca più, o almeno non solo, nel campo tradizionale destra/sinistra ma nel più ampio campo globale apertura/chiusura, unionismo (europeo)/sovranismo, pluralismo/populismo, garantismo/giustizialismo (illuminanti e attuali, a proposito di giustizia e nell’imminenza dei cinque referendum del 12 giugno, i suoi scritti sulla necessità di arrivate alla separazione delle carriere tra Pm e giudici: «È ragionevole che magistrati dell’accusa e magistrati giudicanti intreccino le loro carriere, con qualche fragile wall of separation, possano influire direttamente o indirettamente gli uni sulla carriere degli altri, provengano, si formino e si coltivino professionalmente nella stesso modo?»).
Il monito al Pd: «Il M5s? Ricordarsi di staccare la spina»
Il posizionamento non avviene più solo lungo la vecchia frattura destra/sinistra ma prevalentemente su quella chiusura populista/apertura liberale», scriveva Armillei già nel 2017, dopo le tre grandi sconfitte della Brexit, della vittoria di Donald Trump negli Usa e della bocciatura del referendum costituzionale in Italia. Per questo, pur avendo appoggiato la scelta di dar vita al governo giallo-rosso del Conte 2, negli ultimi tempi il warning al Pd è stato chiaro: «Ricordarsi di staccare la spina», è non a caso il titolo di un articolo scritto alla nascita dell’alleanza Pd-M5s. Da una parte c’è l’ambizione di governare facendosi voce della maggioranza degli italiani, dall’altra c’è l’ostinazione identitaria del rinchiudersi a sinistra. «L’alternativa è ben chiara – così Armillei, nel maggio del 2021, ragionando sulla nuova segreteria di Enrico Letta -. Da un lato l’obiettivo è governare, dall’altro è rappresentare interessi di minoranze, da un lato il big tent, dall’altro il campo largo sì ma della sinistra». Parole che sono quanto mai un monito per i democratici nei giorni della divisione tra Letta e il presidente del M5s Giuseppe Conte sulla guerra in Ucraina e sull’asse atlantico.